Autonomia e sanità: serve più ragione che regione

Le spinte filogovernative sempre più insistenti di Autonomia regionale che si addensano sul nostro Servizio Sanitario Nazionale-SSN (sotto certi aspetti  definito il migliore del mondo ma in verità con molte  riserve) rischiano seriamente di comprometterne e stravolgerne la sua iniziale natura. Quando, negli anni Settanta, in un periodo che non era certamente di grande prosperità economica e tanto meno di quiete nazionale e internazionale (la Guerra Fredda era al suo apice , il Terrorismo di contrapposta matrice insanguinava le nostre strade), venne creato il SSN , sistema universalistico che rendeva gratuita l’assistenza ospedaliera, quella territoriale , quella farmacologica,  quella dei dispositivi medici,  scegliendo   anche di metterne i costi a carico della fiscalità generale, secondo il modello anglosassone Beveridge. Si ritenne  allora anche che fosse un valore la prossimità nell’organizzazione territoriale dei servizi, e che le Regioni, da meno di un decennio istituite, dovessero svolgere un ruolo importante in questo senso, lasciando allo Stato una serie di compiti di pianificazione e di programmazione epidemiologica e socio-sanitaria. 

Il sistema fu arricchito dalla partecipazione di realtà sanitarie di diritto privato, a volte strutture di eccellenza, altre volte meno che ordinarie, che operavano in convenzione con il sistema degli accreditamenti. Si capì subito che saremmo andati incontro a seri problemi di contenimento e di controllo della spesa, anche se, contrariamente al luogo comune, l’Italia è una delle nazioni occidentali che spende meno per la sanità in rapporto al proprio Pil (circa due punti in meno della Germania, circa tre della Francia). Cosa mancò: la ricerca di un riequilibrio fra le ricche Regioni del Centro-Nord e quelle povere del Sud. Anzi, il meccanismo della spesa storica fece in modo che le aree ricche lo diventassero sempre di più e quelle povere si immiserissero ulteriormente. 

A far precipitare le cose, però, furono soprattutto due cose: la riforma “federalista” del Titolo V della Costituzione, perpetrata nel 2001, che nei fatti ha creato venti piccoli sistemi sanitari incomunicanti e l’introduzione del pagamento delle rette ospedaliere sulla base di gruppi omogenei di diagnosi (DRG). In verità il sistema  DRG ha messo in crisi sempre più negli anni la reale rimborsabilità dei costi agli Ospedali con DRG oggi assolutamente non adeguati alle prestazioni erogate , non fosse altro per le nuove tecnologie introdotte ( vedi la Robotica in Chirurgia e non solo).   L’intenzione era di aumentare l’efficienza dei sistemi; il risultato è stato di peggiorarla in modo notevole, favorendo oltretutto la corsa delle Regioni ricche  a istituire centri di eccellenza per le patologie e le tecniche più lucrative. 

Stiamo rischiando di compromettere l’uguaglianza dei cittadini di fronte alle istituzioni (perché quale diritto è più universale ed umano di quello alla salute?) per inseguire modelli di Oltreoceano, con il ricorso massiccio alle assicurazioni private, che proprio lì hanno fallito sia dal punto di vista etico che da quello economico. L’allarme, per chi come me  non solo medico si sente orgogliosamente italiano non potrebbe essere più elevato, specialmente alla luce di alcune interpretazioni iperleghiste del progetto di concedere maggiore autonomia fiscale alle Regioni. È un’idea in sé non malvagia, perché favorisce una maggiore trasparenza e aumenta la possibilità di controllo dei cittadini; ma rischia di essere esiziale per la sanità.

A mio parere servirebbe, al contrario, un grande patto nazionale per la salute, anche alla luce del disastroso impatto avuto dalla pandemia, che ripensi in modo omogeneo ed uniforme alle criticità: carenza di medici e infermieri (anche per la scarsità di posti nelle scuole di specializzazione), eccesso di ospedali inefficienti e moltiplicazione esagerate di tecnologie costose, crisi profonda della medicina territoriale,  assistenza farmacologica caratterizzata da lacune illogiche e sprechi irragionevoli, e così via. 

Dobbiamo portare, anche con le possibilità offerte dalle nuove tecnologie l’assistenza dove ci sono i malati, non spostare i malati dal Lilibeo  (dalle coste fronte libiche) alle Alpi. E possiamo farlo solo superando un improduttivo e assurdo regionalismo. I modelli da imitare, dall’Europa a Israele ci sono, né mancano le intelligenze utili a progettarne di nuovi. Ma è ora di smettere di continuare  a  prendere esempio dai fallimentari modelli di Oltre Oceano e di ripensarne  ad altri di giusto ritagliato profilo e che siano  contestualizzati per  le necessità  assistenziali della  nostra Italia con una visione più unitaria  che regionale. Lasciatemi  passare lo slogan “più ragione che Regioni”.